giovedì 18 novembre 2010
Scuola
venerdì 12 novembre 2010
Pensare col corpo
In cinta. |
In greco il fatto di essere incinta si può tradurre con "essere legata", e partorire con "essere slegata". Il simbolismo del cordone da tagliare, del legaccio da slegare è talmente evidente al momento del parto che solo una società come la nostra, così disturbata nella sua vita simbolica, può non sentire l'aspetto odioso che c'è nel bloccare, o più precisamente nell'"ammanettare" come una prigioniera la donna che partorisce. Le si chiede anche di trattenere le grida e di frenare le proprie emozioni! Si chiede al guerriero di trattenere il suo grido di energia? Questa barbarie medica disturba non solo il processo della nascita, ma l'intera funzione simbolica: come facciamo a lasciare che il nostro bambino nasca, cresca e si distacchi quando noi stesse siamo trattenute, legate e imbavagliate per farlo nascere? Come non diventare frigida quando l'immensa energia sessuale ed emotiva della nascita è trattata come qualcosa di inaccettabile? G. Paris Dal libro “Hermes e Dioniso” copio e incollo da www.pensarecolcorpo.com |
mercoledì 20 ottobre 2010
Parole
Per molto tempo aveva immaginato che quel dolore sarebbe stato come un lusso.Nelle ore che seguirono non ebbe il minimo dubbio, ma anche l'ultimo antro del suo corpo imparò che esistono lussi che costano ciò che valgono e l'intima orgia del parto è, più che un dolore, una battaglia che, per fortuna, si dimentica con la tregua.
mercoledì 7 luglio 2010
Si impara ciò che si vive
giovedì 10 giugno 2010
Dare latte
E’ presto, almeno per i canoni del mondo. Il cane abbaia, segnalando qualcuno al cancello. E’ anche giorno di festa. Qui non ci viene a trovare nessuno; fosse un giorno lavorativo potrebbe essere la forestale...insomma chi è?
E’ il massaro; riconosco la voce mentre viene con Alfonso dal cancello a casa. Che strano. Non abbiamo chiesto nè pane nè formaggi e non è il tipo da visite di cortesia.
Non so bene ancora che relazione abbiamo. Io sono grata a lui e alla sua famiglia per ciò che fanno. Fanno mangiare l’erba alle mucche. Passano le loro giornate qui in campagna; la casa del paese per i giorni di festa.
Che aspetto avrà la signora Maria, vestita col vestito della messa? Non riesco a immaginarle addosso null’altro che la sua vestaglia a fiori.
Parlerà agli ospiti, nelle riunioni di famiglia?Quando io vado su, riesco a strapparle a stento qualche monosillabo e pian piano sto imparando i ritmi del teatro di silenzi necessari a comunicare. Sembra che non senta quando domandi, continua a fare le sue cose.Poi mette da parte l’uovo appena fatto, ‘pu picciriddu’.
Gli uomini parlano di più, contenti che qualcuno abbia a cuore il destino della terra lì intorno e stupefatti allo stesso tempo. So che col tempo arriveranno a condividere i loro segreti così come la signora Maria ha accettato di condividere la crescenza con cui fa il pane.
Quando incontro persone così sono in difficoltà a mostrare la mia gratitudine. La prima volta che feci questo pensiero fu quando partorii. Ho pagato l’ostetrica ma mi sembrava che il denaro coprisse solo un aspetto della nostra ‘transazione’. Se lei non avesse scelto, unica nella nostra zona, di assistere ai parti a domicilio, in un contesto avverso,io forse non avrei potuto scegliere di percorrere quella strada (avrei potuto è vero spostarmi o partorire non assistita ma non erano scelte che mi sarebbero venute in mente a quel punto della strada.).
Così se pago una merce senza cuore, uguale a mille altre, penso che in cambio basti il denaro che copre materie prime e lavorazione, un prezzo equo certo, ma non mi preoccupo di più.
Ma se chi fa la ricotta che mangio ha dovuto fare una scelta inusuale alla base, se questa scelta non è quella della massa ed è difficile da mantenere, io mi sento di dover dire grazie anche in un altro modo.
Mi pesa assai non saper fare nulla. Non saper costruire, tessere, fare opere d’arte.Mi piacerebbe donare qualcosa di speciale a Roberta e Giampietro per il pane e tutto il resto e così a Felice quando ci ospitò e a molte altre persone conosciute e incontrate per la via.
Mi chiamano. Sono in casa. Il massaro, che a rigore è il figlio del massaro, ha un occhio così gonfio e rosso da non poterlo tenere aperto. Serve il mio aiuto. Presa alla sprovvista chiedo cosa posso fare.
“Latte materno.E’ l’unica in contrada che allatta”.
Già. L’ho letto mille volte su manuali e siti web. Ma sinceramente non ho mai pensato che ancora qualcuno sapesse, come un sapere naturale, che il latte materno è la miglior cura contro le congiuntiviti.
Assisto felice al miracolo di come poche gocce di latte agiscano immediatamente. Pochissime gocce, poichè non sono brava a mungermi e così, in questa situazione, sono anche un po’ nervosa (e mentre ci provo mi vengono in mente tutte le cose che so sul riflesso di eiezione e mentre lo penso mi dico ‘troppa neocorteccia non ce la farò mai’).
Più tardi nel pomeriggio ripeto l’operazione con calma silenzio e intimità e il mattino dopo mi presento alla masseria orgogliosa col bicchierino del mio prezioso “prodotto” che Arturo, da buon venditore, abbanìa subito a gran voce dal finestrino del furgone “Signooraaa!Le abbiamo portato il latteee”.
Ecco; qualcosa so fare: dare latte.
Micòl
lunedì 15 febbraio 2010
Sapore di mamma
domenica 17 gennaio 2010
15 Agosto 2009
Col senno di poi credo che invece avrei dovuto preparare un po’ più gradualmente StellArtù.Ero con lui, nel letto ad allattare, quando l’intensità si è fatta difficilmente sopportabile e così gli ho chiesto di chiedere a papà di preparare la piscina.[...] . E però, visto che di pomeriggio, dopo di me, si erano fatti il bagno anche papà e figlio, ci siamo trovati catapultati in un film in bianco e nero perché lo scaldabagno era scarico ed è cominciato un andirivieni di pentole messe a bollire sul fuoco. Non ce l’ho fatta ad aspettare che fosse piena e sono entrata. C’era tensione intorno, molta adrenalina. Mi sono concentrata su Artù perché non volevo che avesse un’impressione di sofferenza, così quando arrivavano le contrazioni badavo a vocalizzare sorridendo e questo ovviamente è stato di aiuto anche per me. Lui era dolcissimo. Visibilmente le emozioni a cui era sottoposto erano forti e si trattava di un attimo, di una disattenzione trasformare l’emozione-felicità in emozione-paura. Quando vocalizzavo mi chiedeva “Mamma ma sei felice?”. Io rispondevo “Sì perché sta nascendo Bebi” e a ogni respiro gli e mi ripetevo “che bello arriva!” “Ti aspettavamo!”. Così a un certo punto si è messo a saltare e battere le mani con un viso radioso dicendo “Che bello arriva Bebi” e mi ha buttato le braccia al collo e ha cominciato a baciarmi tutto il viso “come sei bella mamma così!”.
Poi c’è stato un momento di panico perché ho chiesto un CD e si è scoperto che il computer non lo leggeva così A. si è intestardito a cercare di far funzionare lo stereo rotto e a me dava fastidio che fosse distratto da me. Volevo tutti accanto. Mi sono arrabbiata e Artù si è spaventato. Sono uscita dalla piscina, l’ho preso in braccio e portato sul letto.
Lì mi sono messa a quattro zampe con A. che mi reggeva la testa e mi teneva una mano sulla schiena. La mia amica L.ha avuto la prontezza di mettersi a suonare lo djembè sostituendo così col ritmo del tamburo il rumore del mare che avevo chiesto. Penso che abbia cantato e suonato per un paio d’ore!
Nelle pause tra una contrazione e l’altra allattavo Artù che cominciava a essere un po’ nervoso e voleva essere rassicurato. A un certo punto ho potuto pensare solo a me. Era una situazione strana; non ero in stato alterato di coscienza ma avevo una specie di filtro rispetto a quello che succedeva fuori. Ho smesso di rispondere. Ho sentito L. che leggeva un libro di filastrocche. Non ho una percezione temporale esatta. So che ogni tanto coglievo aspetti di ciò che succedeva. Sentivo questa voce cantilenante e ho visto Artù assorto e tranquillo. Le filastrocche mi hanno aiutata almeno quanto il tamburo e sono anche felice che Artù abbia scelto di farsi leggere quelle. Sono poesie sulla nascita; vuol dire che era dentro all’evento e non lo fuggiva. A me, a parte il suono della voce, aiutavano le parole; sentire “Ecco il mondo bambino, ecco il bambino mondo” o “bella la mamma vista da fuori” mi aiutava a focalizzare il termine ultimo del dolore che stavo provando e mentalmente mi connettevo col mio bambino anziché concentrarmi sul dolore. Poi è arrivato il momento in cui Artù ha deciso che non voleva assistere oltre e si è addormentato. Contemporaneamente io ho sentito il bisogno di rientrare nella piscina che nel frattempo aveva guadagnato qualche grado centigrado.
Iniziavo a chiedermi quanto sarebbe durato. Ero stanca e mi sembrava che il tempo non passasse. Mi rispondevo da sola (tutto nella mia capa) che quando ti sembra di non farcela più vuol dire che sei quasi alla fine.
Mi sono abbandonata con la testa sul bordo della piscina pancia sotto e ho goduto del fatto che dovunque mi appoggiassi era tutto morbido. Non so le piscine per il parto in ospedale come sono. La mia è una piscina gonfiabile e ho provato una doppia sensazione di assenza di gravità e di sforzo, grazie all’acqua e grazie alla morbidezza. A. era seduto sulla poltrona vicino al bordo e mi sussurrava cose del tipo “apri” “scivola” e raccontava di balene nell’oceano e poi parole che non avevano un senso compiuto, solo un susseguirsi di suoni dolci e fluidi che io seguivo ipnotizzata. È stato come fare l'amore. Così come è stato concepito, questo bimbo, nello stesso modo viene alla luce. Non saremmo stati così disinibiti in presenza di un'ostetrica. Seguendo il flusso visualizzavo i miei muscoli che si rilassavano. Nonostante questo mi sentivo chiusa. Avevo la percezione che fosse ora di sentire la testa ma quando arrivava una contrazione affiorava dentro di me un “Non voglio” che ho impiegato un po’ a smascherare. Mi aprivo fino a un certo punto poi scattava qualcosa che mi irrigidiva. Ho avuto un lampo di pensieri “cattivi” tipo “e se c’è qualcosa che gli impedisce di uscire? Nessuno di noi tre ha la competenza di capirlo. Se ci fosse O. (l’ostetrica con cui ho partorito Artù) me lo saprebbe dire” e subito mi sono censurata “io lo so meglio di tutti che tutto va bene”; “voglio tornare indietro, non voglio affrontare questa prova” e subito “l’unico modo per uscirne è andare avanti con tranquillità”. Ho capito che il mio corpo aveva memorizzato il dolore che provai nel parto precedente quando mi lacerai e quello mi inibiva. Ho cominciato a massaggiarmi il perineo e “compatirmi”, non so come spiegarlo, a pensare di volermi bene, a rassicurarmi, tutto in modo molto corporeo e a quel punto ho sentito affiorare la testa fra le mani. Non l’ho sentita scendere, me la sono trovata lì e l’ho accarezzata pensando però che non sapevo come fare a farla passare tutta. Avevo anche lo stimolo di fare cacca e questo mi faceva chiudere. Ma è stato un attimo, ho pensato che l’unica cosa che potevo fare era andare avanti così mi sono lasciata andare. Ho sentito tutta la testolina in mano e l’ho accarezzata per un tempo che mi è sembrato lunghissimo. Poi le spalle e un’altra pausa. Tutto molto lento. Non posso non pensare a tutte quelle manovre che fanno, girare la testa, mettere il dito sotto l’ascella e tirare, per “aiutare a nascere i bambini”. Che follia. Non c’è bisogno di nessun aiuto e non c’è nessuna spinta. Vorrei sapere chi è stato il primo a dire a una donna “spingi”. Non c’è nulla da spingere; l’utero fa il suo lavoro con le contrazioni e tutto avviene spontaneamente con dei tempi che sono completamente diversi da quelli normalmente imposti. Le gambe erano ancora dentro quando A. si è sporto sul bordo e io ho avuto l’impressione che volesse intervenire. Così gli ho intimato di star fermo e il bimbo è uscito del tutto. Mi sono girata l’ho preso e poggiato sulla mia pancia. Lo guardavo e accarezzavo e intanto lui, con estrema competenza, pian pianino si è fatto strada fino alla tetta. Un breastcrawling da manuale! L’acqua iniziava a essere fredda così sono uscita per andare sul letto. Sensazione di onnipotenza e benessere totale. A quel punto mi sono ricordata di controllare se era maschio o femmina! Dopo pochi minuti ho partorito la placenta, l’abbiamo lavata e messa in una bacinella e poi siamo andati a nanna.