venerdì 31 ottobre 2008

Scuola Familiare

In attesa di trovare il tempo di tradurre il resto dell'articolo della Aldort vi metto a parte dell'esistenza di una rete di genitori che praticano scuola familiare (in Italia è obbligatoria l'istruzione, non la frequenza scolastica).questo il resoconto del primo incontro ufficiale a cui ne seguirà un altro a fine dicembre in Toscana.Se qualcuno è interessato mi faccia sapere.


SCUOLA FAMILIARE – Resoconto dell’incontro

La Casotta, Nibbiano – Pecorara – Casa Perotti, 2 Agosto 2008

Sulla terrazza coperta ricavata da un vecchio fienile, con lo sguardo aperto sulle colline piacentine, un gruppo di famiglie si è riunito, all’inizio di agosto, per discutere sul tema della “scuola familiare”. L’incontro è nato dall’esigenza di confrontarsi, di ascoltare le esperienze in corso o già portate a termine, e di raccogliere le opinioni di tutti quelli che si erano dichiarati interessati all’argomento, attraverso i contatti raccolti via mail.

Già dal primo cerchio di presentazione – che si è deciso di estendere anche agli assenti, avvalendosi della posta tradizionale o elettronica – si sono messi in luce alcuni bisogni essenziali che la scelta della scuola familiare – o di qualsiasi altra forma d’impegno diretto nell’educazione dei propri figli da parte dei genitori – di fatto consente di soddisfare.

Sin dall’inizio Susanna – che frequenta la quinta in una multi-classe di una scuola di montagna – ci ha segnalato, ad esempio, le sue difficoltà a imparare “i metodi di apprendimento” prestabiliti e in varie forme imposti dalla maestra,– tecniche, riassunti, schemi, scalette, diagrammi, ecc. –piuttosto che la difficoltà di “mandar giù nozioni” che ancora non riesce a sentire come “inutili” o potenzialmente dannose.

Le dichiarazioni di Susanna hanno dato lo spunto al gruppo per chiarire, attraverso la discussione, che:

-      la scuola familiare dovrebbe essere un modo per lasciare ai bambini libera scelta e che le regole di organizzazione del loro “tempo di istruzione” siano in qualche modo decise insieme a loro e non imposte, organizzate dall’alto (nella prospettiva delle esperienze di Neill a Summer Hill);

-      la scuola familiare è un modo di assecondare i bisogni dei bambini al di fuori della logica rigida di classificazione dei compiti di apprendimento per età (imparare a leggere entro i sei anni, a far di conto entro i sette, a esprimersi in italiano entro gli otto, e così via);

-      la scuola familiare non dovrebbe essere “solo” una forma di “ripetizione” del modello di istruzione “canonico” attuata tra le mura domestiche, messa in atto da operatori momentaneamente prestati allo scopo (genitori o altri precettori più o meno “occasionali” più o meno professionali) secondo la logica del testo di legge che vuole infatti accertare, con l’esame annuale, le competenze dei genitori ad impartire l’istru zione obbligatoria ai propri figli;

-      la scuola familiare non è riducibile ad una questione di scelta di metodi, regole o tecniche alternativi alla logica dell’alternarsi di compiti – assegnati in forme rigide – e premi/punizioni – decisi in modo sempre arbitrario;

-      la scuola familiare non è riducibile alla messa in discussione (in crisi, in dubbio…) o alla revisione sistematica (e a qualsiasi altra forma di rielaborazione specialistica) del corpus di saperi comunque istituzionalizzato (che sia il programma ministeriale, il palinsesto della tv, la Bibbia o qualsiasi altra raccolta di testi “sacri”…) che si da “per scontato” sia alla base del processo di “educazione” che si intende mettere in atto.

Riassunto in uno slogan, la Scuola Familiare non si riduce all’alternativa tra Un-Schooling e Home Schooling (Claudio).

Non a caso, una delle motivazioni forti emerse nello scambio dialogico tra le famiglie presenti all’incontro de La Casotta, è la necessità di difendersi dalla omologazione, dalla distruzione della specificità del messaggio culturale locale, tribale, familiare all’interno del marasma relativistico e consumistico della cultura di massa. Questo timore è alla base di quasi tutti i diversi approcci presentati e accomuna le diverse attese espresse, anche quando queste ultime riguardavano gli aspetti meramente tecnici connessi alla scuola familiare – tipo: sono insegnante e/ma voglio imparare a fare scuola familiare…

A questo timore potrebbe rispondere una scuola familiare che sia una forma di scambio multifamiliare, una sorta di “mercatino delle idee”, della creatività, uno spazio dello scambio libero e, perciò, necessariamente creativo.

Tutti si sono dichiarati convinti, con Clara espressamente citata da Chiara, che per fare scuola familiare “è necessario avere una vita interessante e del tempo libero”. Il bambino, infatti, non dovrebbe essere il “centro” della vita familiare, il nucleo che ne assorbe tutte le energie e che va “protetto” dalle influenze esterne. Dovrebbe bensì esserne “il motore”, cioè la spinta propulsiva delle scelte di vita dei genitori che lo coinvolgeranno a pieno in tutte le loro esperienze di vita. Esperienze che saranno, perciò, “naturalmente interessanti” e qualificanti l’apprendimento del bambino senza che intenzionalmente i genitori ne determinino in qualche misura gli orientamenti e gli apprendimenti – ora ti insegno a cucinare i fagioli piuttosto che a fare gli aeroplanini di carta…

Si è giunti a sostenere che l’aspetto di “naturalità” della scelta della scuola familiare dovrebbe, infatti, risiedere in quest’atteggiamento non impositivo – non impongo a mio figlio di fare una vita alternativa perché penso che questo sia un bene per lui – ma propositivo – viviamo insieme questa esperienza, io ascolto i tuoi bisogni, le tue risposte e attraverso un feedback, anche e soprattutto emotivo, ri-oriento il mio comportamento in una direzione piuttosto che in un’altra.

La scuola familiare può essere intesa, in questa prospettiva, come un corollario “naturalmente conseguente” alla scelta del contatto continuo, come ha proposto Alfonso, del portare i piccoli, di non separarli mai dalla vita degli adulti in nome dei loro presunti bisogni di socializzazione autonoma.

Bisogna, infatti, fare molta chiarezza “interiore” quando si parla di “bisogno di socializzazione” o di “necessità di imparare a socializzare” da parte del bambino. Bisogna, cioè che ci chiariamo: si tratta del nostro desiderio che il bambino impari, o del nostro timore che non impari, a socializzare, e che quindi, resti escluso, che tenda a “fare il solitario”, ecc? Che cosa ci impedisce di scegliere la scuola familiare? Il nostro bisogno che nostro figlio impari il più presto possibile a esercitare su di sé l’autocontrollo per entrare in relazione con persone che non ha scelto, per adattarsi coercitivamente ad un sistema che non comprende, e così via? Non dobbiamo trascurare però il fatto che di tutti questi sforzi di adattamento imposti a nostro figlio, noi genitori siamo responsabili e dovremo, prima o poi, rendergli conto in prima persona – non vale l’argomento: il mondo è così com’è e tu lo impari punto e basta, gli devo offrire anche il mio perché, tendendo conto che il suo comportamento conseguente sarà probabilmente l’adesione a un nostro consiglio, invito, imposizione piuttosto che una sua libera scelta.

Questa esigenza di preservare le facoltà di scelta del bambino, considerandolo a pieno titolo una “persona” e non un “minore” dovrebbe portare, come ha sostenuto Ruggero, a rispondere alle varie “circolari” del Ministero e in particolare all’ultima (che impone l’esame annuale n.d.r.) presentandosi come interlocutori qualificati – sulla base delle esperienze portate a termine – e non solo ideologicamente contrari a una scuola di Stato, a una scuola troppo succube alle logiche del consumismo e del conformismo, alla Scuola come unica struttura rituale in cui hanno luogo i “riti di passaggio”, di accettazione relazionale e di appartenenza sociale.

La discussione ha portato in luce una serie di timori diffusi circa il senso di inadeguatezza o la paura dei genitori di “non dare abbastanza” ai propri figli attraverso la scuola familiare – in termini di saperi necessari o minimi o istituzionali – anche in relazione al proprio vissuto di scolari non sempre ben integrati o esplicitamente ribelli. A tal proposito, Silvia ha proposto di considerare attentamente quanto sostiene Etain, che consiglia i genitori impegnati in una relazione continua con i propri figli a segnare, a fine giornata, su di un quaderno, tutto quello che si è fatto insieme durante il giorno, per poi scoprire quanto grande sia il patrimonio di conoscenze trasmesso quotidianamente e quanto vasto sia potenzialmente il programma degli argomenti effettivamente trattati da un bambino “seguito”, anche in confronto ai cosiddetti programmi ministeriali… che sono invece solo formalmente portati a termine da una classe ordinaria di scuola dell’obbligo.

In questo senso, Alfonso ha proposto che la discussione e il confronto con le Istituzioni sullo status della scuola familiare andrebbe quindi estesa o canalizzata nel dibattito sul valore legale del titolo di studio che in Italia di fatto blocca tanti aspetti della vita scolastica – l’autonomia, la personalizzazione dei percorsi formativi, la libertà dell’insegnamento, la ricerca pedagogica, ecc.

La contraddizione è, come ha sottolineato Annalisa, palese: se non ci importa nulla della scuola istituzionale perché dovrebbe importarci qualcosa dell’esito dell’esame? Quindi perché preoccuparsi se l’esame di accertamento dell’operato dei genitori che optano per la scuola familiare – secondo gli attuali orientamenti di legge – passa dalla cadenza ciclica (alla fine del ciclo delle elementari, alla fine dal ciclo delle medie, ecc.) alla cadenza annuale (sic! Vedi testo della circolare ….)?

Se nostro figlio non dovesse superare l’esame noi genitori non rischiamo nulla: né sanzioni né riduzioni della patria potestà. Solo il non conseguimento del titolo di studio: l’obbligo di istruzione lo si considera comunque assolto dalla nostra dichiarazione in cui ci assumiamo la responsabilità dell’educazione di nostro figlio secondo la modalità, prevista dalla legge, della scuola familiare.

 A un eventuale insuccesso potrebbe eventualmente seguire, l’anno successivo, la necessità (ma non necessariamente l’obbligo, almeno per ora!) di sottoporsi a una “doppia verifica” (o anche solo alla semplice ripetizione di quella non superata…) e questo in funzione delle ansie da prestazione dei genitori: cioè se e solo se i genitori desiderino “tenere al passo” il proprio figlio con i coetanei frequentanti la scuola dell’obbligo… oppure lasciarlo libero di scegliere se e quando superare le prove corrispondenti ai diversi gradi di svolgimento dei famosi programmi ministeriali…

Bisogna tuttavia essere sempre “attivi” e vigili per evitare che nel rapporto con le istituzioni, alcune determinate persone – cioè insegnanti, dirigenti o “verificatori” a vario titolo – non preparate o ideologicamente contrarie a qualsiasi forma di deroga dai cammini istituzionalmente previsti, si accaniscano contro il bambino, torturandolo psicologicamente o semplicemente non ascoltandolo, come ha riferito Christine a proposito dell’esperienza di suo figlio Johannes.

Di fatto dall’ascolto delle esperienze portate avanti sino a oggi, è emerso quanto sia piuttosto frequente che, a fronte di una formale disponibilità ad accettare l’allievo “esterno”, molte strutture scolastiche siano, di fatto, totalmente non attrezzate a gestirlo, sia in termini relazionali sia in termini genericamente culturali, per cui non sono infrequenti, purtroppo, i casi di comportamenti che ancorché illeciti – esami a porte chiuse, accanimento su argomenti o schemi logici tipicamente scolastici, svalutazione degli elaborati autonomamente presentati a documentazione dei percorsi formativi e/o educativi svolti – sono gravemente lesivi della dignità del bambino.

Da qui la necessità, sottolineata da Chiara, di tenere strettamente unito e in contatto continuo il gruppo degli operatori della scelta della scuola familiare, anche attraverso incontri come questo de La Casotta, sia per proteggere i bambini da comportamenti vessatori sia per movimentare la discussione a livello sempre più pervasivo degli apparati istituzionali.

Silvia ritiene che sia il caso di “affrontare l’esame” quando ci si sente pronti a mettersi in discussione: l’esame potrebbe essere uno dei tanti modi per evitare il rischio di mettere i propri figli “sotto una campana di vetro”, per favorire il confronto, per affermare “questo è il modo di vivere nostro”, presentarlo ai bambini come una presentazione verso l’esterno, cercando di essere “elastici” nell’accoglierne l’esito…

A molti sembra necessario preservare il concetto di “educazione” rispetto a quello di “esperienza”: chi fa scuola familiare non vuole solo ridurre tutto alle esperienze del quotidiano vuole anche trasmettere una cultura, una delle forme di cultura di cui la scuola pubblica non garantisce “più” la trasmissione – sapere contadino, artigiano, religioso-spirituale, magico, sentimentale, emozionale – nonché un diverso rapporto adulto-bambino basato sul rispetto reciproco, su un reale rispetto ascolto bilaterale e mutuamente vantaggioso.

Molto interesse ha suscitato l’esperienza di Loredana che ha iscritto la figlia ad una scuola “normale” con l’obbligo di frequentarla solo una settimana al mese, con grande elasticità di valutazione e di attestazione da parte dell’istituzione in merito alla effettiva frequenza e al lavoro svolto autonomamente dalla famiglia durante le settimane di scuola “familiare”. Anche se si tratta di una scuola particolarmente “attrezzata” – ha “gestito” i bambini degli Elfi per circa un ventennio, con diverse modalità e secondo diversi “accordi” – il modello proposto è sembrato a molti “esportabile” almeno presso le scuole presenti in piccoli centri con problemi di numero di iscritti.

Anche l’esperienza di Jacqueline ha suscitato notevole interesse: la sua famiglia ha due bambine iscritte alla scuola ordinaria, che frequentano regolarmente, mentre al pomeriggio, alla sera o durante le festività e le vacanze, svolgono attività creative o esperienze lavorative con i genitori, portate avanti senza imposizioni con il criterio della libera scelta da parte del bambino e dell’educazione fra pari adulto-bambino (o qualunque altro purché non ripeta lo schema duale maestro-allievo già sperimentato a scuola). Inoltre le bambine com-partecipano alle esperienze relazionali degli adulti che le selezionano in base a vari criteri di opportunità, ricreatività, piacevolezza…

Ascoltando le esperienze dalla voce dei bambini viene fuori che la scuola non piace perché “bisogna alzarsi presto”, perché i bimbi della scuola sono ostili, ti prendono in giro o fanno cose inutili e ripetitive. Ma è da apprezzare perché se non la frequenti rischi di avere pochi amici. E se ti prendono in giro puoi sempre fartelo entrare da un parte e uscire da quell’altra… le loro opinioni sembrano dunque confermare che gli aspetti più “difficili” della scuola ordinaria sono la rigidezza dell’organizzazione – che non può tenere conto delle esigenze o dei desideri dei singoli bambini – e le dinamiche relazionali imposte dalla stessa organizzazione a gruppi di bambini che non si scelgono in base a reciproche affinità o interessi ma si trovano obbligati a stare lì tutti insieme.

Dall’ascolto delle esperienze, anche indirette, si è maturato il convincimento unanime che sia necessario confrontare gli stili di vita che pratichiamo per capire come avviare pratiche di mutuo sostegno, oltre che di comprensione/conoscenza.

Non a caso si è accesa una discussione sulla definizione “terminologica” di Scuola familiare, chiedendosi perché familiare (in opposizione a pubblica/sociale)? C’è qualcuno che la chiama parentale (che potrebbe essere solo una cattiva traduzione dall’inglese…) o addirittura paterna (in opposizione a materna, viene da supporre…). Claudio ha proposto il termine apprendimento continuo, altri hanno sottolineato il valore di parole come conoscenzaautonomia ed educazione che sarebbe comunque il caso di mettere in evidenza.

Ciò che è apparso evidente, è che a tutti sta stretta essenzialmente la nozione di scuola, che evoca comunque l’idea di un sistema, più che quella di un processo… mentre ciò di cui si è andati discutendo è appunto questo: un processo. Che coinvolga persone, genitori e bambini, piccoli gruppi o intere comunità. Che sia di apprendimento o di educazione – che, come ricorda Annalisa, viene dal latino ex ducere che vuol dire guidare, portare fuori – poco importa. Che sia una costellazione di esperienze e di nozioni sembra quasi scontato e forse inevitabile. Ma che sia un processo, una pratica comune messa in atto da tutti i partecipanti, dove nessuno è soggetto passivo di nessun altro, dove le decisioni sono condivise e le scelte comuni, e non un sistema dato una volta e per tutti. Alfonso ha proposto una “metafora idraulica”: l’educazione è il sistema (qualunque sistema) per travasare la cultura-liquido dal recipiente collettivo istituzionale al recipiente cerebrale individuale. Tutto sta nel capire chi manovra il rubinetto!


 


 

 

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